Tra normativa italiana e strategie di mercato
Dall’Europa al Giappone, cresce la domanda di vini dealcolizzati.
Ma in Italia il comparto è ancora fermo al palo.
È una scelta culturale o un’occasione mancata?
Che cos’è davvero il “vino dealcolizzato”? E perché se ne parla tanto adesso?
La definizione tecnica dell’Unione Europea (Reg. UE 2021/2117) è chiara:
“si può chiamare vino dealcolizzato un prodotto che parte da un vino vero e proprio, dal quale l’alcol è poi rimosso parzialmente o totalmente, con tecniche come l’osmosi inversa o la distillazione a vuoto”.
Ma perché tutto questo clamore adesso?
- La domanda globale di low e no-alcohol wine è cresciuta del +35% negli ultimi due anni.
- A guidare la tendenza sono i Millennial e la Gen Z, attenti alla salute, al bilancio calorico e alla socialità “light”.
- I grandi gruppi stanno già investendo.
In paesi come Spagna, Francia e Germania, esistono linee di produzione dedicate.
L’Italia? Ancora in fase di riflessione.
Cosa dice oggi la normativa italiana? Perché siamo indietro?
Attualmente, in Italia non è possibile etichettare come “vino” un prodotto completamente dealcolizzato (sotto lo 0.5%). Questo perché le denominazioni di origine (DOC, DOCG, IGT) vincolano il tenore alcolico minimo.
Quindi:
- Se produci un Chianti a 0.3% alcol, NON puoi più chiamarlo Chianti.
- Puoi etichettarlo solo come bevanda aromatizzata a base di uva o mosto.
Ma dal 2026 la situazione potrebbe cambiare. È in discussione un adeguamento normativo che recepisca il regolamento UE in modo più elastico, almeno per alcune IGT.
Oggi però, il freno è culturale quanto legislativo. La paura è che si banalizzi la tradizione e si comprometta il valore identitario del vino italiano.
Quali sono le strategie vincenti degli altri paesi?
Prendiamo tre esempi:
- In Spagna troviamo già produzione dedicata con storytelling sul benessere ed esportazione in 50+ paesi.
- In Francia si fanno già accostamento a cucina gourmet e consumo quotidiano senza perdere il prestigio.
- In Australia si stanno attuandocollaborazione con nutrizionisti e canali farmacia/wellness.
Tutti queste iniziative sono state intraprese senza rinunciare né al gusto né alla “narrazione di terroir” ovvero all’intreccio tra suolo, clima, tradizione e intervento umano che dà unicità a un vino.
Hanno semplicemente capito che esiste un altro tipo di consumatore.
E soprattutto: non vendono solo un vino, ma uno stile di vita.
E in Italia? Quali segnali di cambiamento si intravedono?
Qualcosa si muove, anche da noi:
- Cantine Venete tra le più rinomate stanno sperimentando.
- Alcuni territori come il Trentino e il Friuli si stanno aprendo a nuovi disciplinari più flessibili.
- I canali export cominciano a chiedere prodotti “no alcol” per aprire la GDO internazionale.
Ma servono tre cose:
- Una visione strategica da parte dei consorzi.
- Un linguaggio di comunicazione evoluto: non solo “senza alcol”, ma “con più scelta, più salute, più occasioni”.
- Una lobby intelligente verso il Ministero e Bruxelles per rivedere le barriere normative.
Quali opportunità (vere) può cogliere chi produce o distribuisce vino oggi?
La partita è ancora aperta. E il primo che la gioca bene, può diventare leader di un nuovo segmento.
Ecco alcune leve:
- Segmentare il pubblico: chi vuole vino da meditazione continuerà a cercare l’alcol. Ma chi vuole convivialità smart, wellness e leggerezza ha bisogno di un’alternativa.
- Aprire nuovi canali: dai locali serali ai brunch, dagli eventi sportivi alle aree lounge aeroportuali.
- Posizionarsi su valori forti: identità italiana, sostenibilità, artigianalità. Anche senza alcol.
Concludendo:
La domanda non è più “ha senso produrre vino senza alcol?”, ma “quanto siamo pronti a rispondere al mercato senza perdere la nostra anima?”
Chi saprà evolvere senza tradirsi, potrà dare al vino italiano una seconda giovinezza.
Avvocato Davide TORCELLO